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Riti storie e leggende

Guida pratica tra le manifestazioni folcloristiche più caratteristiche dell´inverno
 
Sacro e profano, passato e presente, centro e periferia: tutto si unisce nel panorama del folklore locale di Valtellina e Valchiavenna con ricorrenze che si susseguono lungo tutto l’anno. Le tradizioni popolari abbinate alle ricorrenze religiose si alternano, e forse si sostituiscono, a quelle di derivazione differente, la cui memoria si perde in un passato lontano, vecchio di secoli. Sono in particolare le zone periferiche e dunque meno contaminate, come il bormiese, le valli laterali o alcuni paesi di mezzacosta, ad aver mantenuto con più facilità le tradizioni sedimentate e giunte fino al Novecento, secolo che invece, nell’idea di modernità, ha condotto all’oblio alcune delle tradizioni paesane precedenti. L’inizio dell’anno solare nell’era Cristiana si è sommato alla nascita del Gesù, quale nuova luce del mondo, portando con sé alcune tradizioni che si rifanno all’idea del dono, in particolare sovrapponendosi al calendario liturgico con la memoria dei regali portati dai Re Magi a Cristo, di cui si fa memoria nella festa dell’Epifania, il 6 gennaio.

Bondì Ghibinet. Non stupisce dunque che proprio il 6 di gennaio a Livigno si perpetui la tradizione del saluto: “Bondì Ghibinet”, mentre i bambini percorrono le vie del paese con le slitte in cerca di regali e dolcetti. Chi non risponde subito al saluto dicendo: "Bondì Ghibinet!" deve pagare pegno, offrendo un piccolo regalo. Probabilmente, la parola Ghibinet è una storpiatura del tedesco "Gaben-nacht", che significa "notte dei doni", in riferimento proprio a quelli dei Re Magi. Si tratta della stessa idea che, più diffusamente, nel territorio italiano ha portato allo sviluppo della tradizione dei doni della Befana, singolare reinterpretazione in chiave positiva della figura della strega. Un nome simile a quello di Ghibinet lo ritroviamo a breve distanza, a Bormio, dove, sempre il 6 di gennaio il folklore locale perpetua la memoria del Gabinàt, anche in questo caso quale saluto da fare per non pagare pegno.

Bagùta. Quello stesso giorno, in Valchiavenna, vi è la memoria di una strana rappresentazione, a metà tra laico e religioso, tra saluto e sberleffo, tra corteo e carnevalata. Si tratta della Bagùta, oggi perpetuata solo nell’abitato di Menarola ma un tempo diffusa in alcuni paesi della valle della Mera, come Mese, Gordona e Samolaco. Probabilmente il termine Bagùta è avvicinabile a quello della maschera veneziana con mantellina nera, detta Bagutta, indossata dall´aristocrazia della Serenissima per circolare in incognito tra le calli veneziane. E in effetti, l’idea di movimento, di corteo, torna anche nella celebrazione locale unita ad una sorta di “recita” che si svolge lungo tutti i sentieri che portavano da un casolare all´altro per toccare ogni famiglia della comunità. In alcuni aspetti la Bagùta sembra richiamare da vicino proprio il teatro a personaggi fissi, molto in voga nel Settecento. Vediamo sfilare i Diavoli e il Prete, il Capitano, i Carabinieri, che infallibilmente arrestano il Ladro che compie in ogni casa un furto simbolico, e poi i Brutti, i Matti, per arrivare fino alle figure della Befana, del Babbo Natale e alle Sposine.

L´Homo Salvadego. Ugualmente singolare è la rappresentazione fissa dell’Uomo Selvatico, una figura mitica diffusa nelle alpi, che più raramente si vede portata ad un aspetto teatrale sino ai nostri giorni. Anche questa sembra una figura posta fuori dal tempo, quasi una sorta di progenitore o il ricordo di una divinità o semi divinità antica che poteva avere qualche funzione simbolica e che da quella conserva alcuni elementi della raffigurazione, in tal senso sono suggestive alcune analogie con la figura di Ercole, simbolo del vigore fisico ma anche dell’elemento terra, come avviene, ad esempio, nella sua raffigurazione cinquecentesca nel corridoio d’ingresso in villa Vertemate Franchi a Piuro. L’Homo Selvatico più noto in provincia di Sondrio lo si trova dipinto a Sacco in Valgerola, nella così detta camera picta, oggi divenuta un piccolo museo tematico. Qui l’uomo è rappresentato col corpo peloso e la barba fluente e con in mano un nodoso bastone e si presenta attraverso una sorta di fumetto “Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura"; sottolineando come questa figura mitologica incarni un concetto di giustizia primordiale, un ammonimento, la paura, che avviene solo in caso di maltrattamento, l’offesa. Questo personaggio dovette essere nei secoli scorsi così presente nella cultura contadina alpina che una delle Tre Leghe Grigie, quella delle Dieci Giurisdizioni, lo pose nel proprio stemma. Analogie con l´esempio dipinto a Sacco si riscontrano ad Oneta, in provincia di Bergamo, dove, nella cosiddetta casa di Arlecchino, si trova una figura di uomo coperto di pelo e con un bastone, risalente al XVII sec. In Valtellina altre raffigurazioni dell´Uomo Selvatico si possono vedere sulla Porta Poschiavina a Tirano e a Palazzo Besta a Teglio, probabilmente derivate dal simbolo della Lega delle Dieci Giurisdizioni. Una ultima curiosità, in Val Codera, convalle della Valchiavenna, l’Uomo Selvatico è chiamato Valföbbia.
 
Cupéta. Il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, la tradizione valtellinese associa in alcuni centri, come Morbegno e Sondrio, la produzione della Cupéta, un dolce composto da miele, zucchero e noci tritate. Lo stesso dolce veniva preparato a Sondalo nella ricorrenza di Sant’Agnese e a Bormio per quella di Santa Lucia.
 
L´è fòra Genéjron. Le ricorrenze folkloristiche riprendono poi con una cadenza mensile lungo
i mesi invernali, quasi a contare le settimane che scorrevano fredde, nella speranza di vederle sostituite da quelle più miti. Così, in molti punti della provincia il 31 gennaio si bussava alle case, specialmente dei più anziani o isolati, chiedendo ai proprietari di aprire la porta e mostrarsi, per poi gridare in coro: “L´è fòra Genéjron”, avvisandolo della fine del freddo mese di gennaio, di cui il malcapitato sembrava prenderne il ruolo. A Bormio, sempre il 31 gennaio, il grido: “L’è fora genejron” è fatto da tanti bambini vestiti in abito tradizionale, che accompagnano le parole tirando barattoli in modo da provocare rumore per festeggiare la fine del lungo e freddo gennaio. Qualcosa di simile al ricordo della fine di gennaio avveniva anche all’inizio del mese di febbraio, in particolare il giorno 2,
quando ai malcapitati giunti all’uscio di casa si gridava: “L´è fora l´Ors de la tana”, dando dell’orso che esce dal letargo, a qualche compaesano poco avvezzo alla vita sociale, soprattutto nei periodi più freddi. La datazione al 2 febbraio appare interessante perché si sovrappone al culto religioso della Candelora, legata anche alla benedizione dai mali alla gola e delle candele come fonte di luce, reale e spirituale, con una funzione simbolica di allontanamento del male.
 
Carnevàl di Mat. Febbraio è anche mese di maschere e divertimento per eccellenza, grazie al carnevale. Uno speciale lo si ritrova nuovamente a Bormio, dove sopravvive il Carnevàl di Mat, un’antichissima tradizione in cui gli Arlecchini della Compagnia di Mat eleggono il Podestà di Mat che, per un giorno, prende simbolicamente il posto del sindaco e legge in piazza pettegolezzi e lamentele raccolti tra la popolazione. Questo evento bormino sembra una variazione, spostata a carnevale, della Bagùta descritta precedentemente, una sorta di ribaltamento delle regole, in cui i matti prendono il sopravvento guidando la popolazione, in questo caso anche dal punto di vista amministrativo. Popolazione che a sua volta si sente libera di esternare quello che leggi e morale comune non consentivano di fare in tutti gli altri giorni dell’anno.

Fora l´erba che l’è marz! Il mese di marzo inizia nel piano di Valchiavenna con quella che potremmo definire l’ultimo dei tre “risvegli” dalla stagione invernale cadenzati da gennaio a marzo. Dopo L’è fora genejron e L´è fora l´Ors de la tana, il primo di marzo si esclama: Fora l´erba che l’è marz! La frase è accompagnata da un percorso lungo i prati dei paesi con dei campanelli o campanacci, fatti suonare verso i prati, in modo che questi si risveglino dalla improduttività invernale. Ancora oggi a Mese a proporre questo itinerario sono i bambini delle scuole elementari, riproponendo probabilmente un “rito” molto antico. Singolare infatti è il rapporto diretto tra umano e terreno, un suolo che viene umanizzato, tanto da avere orecchie per sentire i campanacci che lo chiamano.
La processione del Venerdì Santo. Il periodo tra marzo e aprile, coincide con le festività Pasquali, legate alla passione, morte e Resurrezione di Cristo. Attorno a queste ricorrenze, in questo caso con una forte matrice cristiana, si sono sviluppati dal medioevo sino ai secoli più prossimi a noi alcuni riti singolari e affascinanti, con elementi differenti nei vari punti del territorio provinciale. Il venerdì santo è probabilmente il giorno del triduo pasquale che conserva i riti più intensi e drammatici di quei giorni, ripercorrendo la Via Crucis sino alla morte di Cristo. Le più suggestive processioni del Venerdì Santo ancora presenti in provincia di Sondrio sono quelle di Morbegno e Chiavenna. Nella processione del capoluogo del Terziere di Sotto, sono ancora presenti i bambini vestiti da angeli con gli strumenti della passione di Cristo, le due confraternite e i vigili del fuoco in uniforme ottocentesca. Ma ciò che rende suggestiva la processione di Morbegno è senza dubbio l’utilizzo del magnifico catafalco ligneo barocco, un’opera documentata dal 1737, forse realizzato dal pittore e architetto sondriese, Pietro Ligari, alta 18 metri. Questo capolavoro d’arte d’intaglio si inserisce in quello splendido spazio barocco che è la chiesa di San Giovanni Battista, raro esempio di spazio religioso a pianta centrale, edificata ex novo dal tardo Seicento nello stile in voga in quei secoli, con architettura e decorazioni interne in stile ed elegantissime. Una suggestiva processione si svolge, sempre il Venerdì Santo, nelle vie del centro storico di Chiavenna. Negli ultimi anni è notevolmente cresciuto l’interesse per la processione da parte dei turisti, che giungono apposta a Chiavenna anche dalla vicina Svizzera per assistere alle suggestive fasi della tradizionale rappresentazione. Quando il buio avvolge la città, dalla parrocchia di partenza si avvia lentamente il lungo corteo di fedeli aperto dai sacerdoti e chierichetti, seguiti dalla banda cittadina e scortata da carabinieri in divisa storica. Alle loro spalle, in lunghe tuniche nere, i confratelli della “Buona Morte” portano a mano e a spalla gli oggetti antichi che rappresentano i momenti più importanti della passione di Cristo. Nel lungo spazio occupato dalla confraternita, sono esibiti elementi artistici di notevole valore come i baldacchini di velluto ricamati finemente a mano, gli arazzi del Seicento raffiguranti le scene della Settimana Santa, i candelabri, le lanterne e le statue del Cristo deposto, portato in processione in una grande teca di vetro sorretta da otto confratelli, e quella della Madonna Addolorata, scortata da lampade di ottone sorrette da aste. Il ritmo lento del corteo è scandito dalla solenne musica della banda cittadina, che dà il passo alla processione.
 
Pasquali di Bormio. La domenica di Pasqua trova luogo a Bormio una singolare e scenografica rappresentazione folkloristica, unica nel suo genere. Gli abitanti del luogo, dagli anziani ai bambini, indossano il costume tipico e nel centro storico partecipano alla sfilata dei Pasquali, ovvero delle portantine a tema religioso, dei veri capolavori artigianali realizzati durante l’inverno, nei Reparti, cioè i quartieri, di Bormio: Buglio, Combo, Dossiglio, Dossorovina e Maggiore. I Pasquali, alcuni enormi, altri, quelli dei bambini, più piccini ma non meno preziosi, vengono portati a spalla dai ragazzi mentre donne, anziani e bambini, portano fiori e altri piccoli lavoretti artigianali. Una giuria stila una classifica in base a diversi fattori, dal significato religioso al lavoro artigianale e artistico, senza dimenticare l’aspetto culturale e di tradizione, fulcro della manifestazione stessa. Con probabilità, la tradizione dei Pasquali, affonda le radici nell’antica cultura contadina di Bormio, con testimonianze sin dal XVII secolo, quando esisteva l’obbligo di preparare e cucinare un agnello da distribuire in piazza del Kuerc, la piazza centrale del paese, proprio il giorno di Pasqua. Alla fine del XIX secolo venne introdotta la benedizione dell’agnello vivo e, da qui, nacque la gara tra i Reparti per adornare al meglio il proprio animale. A poco a poco, s’incominciò ad adagiare gli agnellini su delle portantine di muschio addobbate e, da lì, si arrivò ai Pasquali così come oggi vengono celebrati.






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