Testo del Prof. Guido Scaramellini
E´ un luogo poco conosciuto che a primavera si rivela una piacevole scoperta!
Di fronte ai ruderi mi viene spontaneo riandare a quando quei muri erano abitati e intorno c’era vita, e come ogni cosa morta, o che si avvia a morire, mi lascia un che di amaro davanti alla provvisorietà della vita e delle opere umane. Questo mi accade ancor più per cose che ho fatto in tempo a vedere, se non in uso, almeno conservate nella loro struttura. Come alla Cesura di Gordona, sul confine con il territorio comunale di Samòlaco, sulla destra del Piano di Chiavenna e del fiume Mera, vigilata dal triangolo di monte che culmina con la quasi millenaria torre di Segname. Anche il toponimo Cesura rimanda indietro nel tempo, quando con tale termine o con quello di “ciòos” si indicava una proprietà racchiusa da siepi o muri. Fino a diversi decenni fa tra gli anziani la zona era chiamata anche “zardiin”, ben lontano da come si presenta oggi. In realtà era una fattoria, una delle rare vecchie fattorie conservate in provincia di Sondrio, come scrivevo negli anni ’60 del Novecento, quando i resti davano ancora l’idea dell’antica funzione della strut- tura. Poi il cambiamento dell’economia e l’abbandono dell’allevamento hanno segnato il destino di questo complesso dove il degrado è inesorabilmente avanzato a vista d’occhio.
Una fattoria fortificata voluta da una vedova Pestalozzi
Siamo a pochi chilometri dall’abitato di San Pietro di Samòlaco e ancora meno da quello della frazione Ronscione, in un vasto lembo di terra che va dalla sponda destra del fiume Mera al piede delle alpi Lepontine. Un posto oggi fuori dal mondo, ma in passato assai meno, passandovi la strada più antica che, lungo il versante destro della valle, continuava la via Regina proveniente da Como e portava a Chiavenna. L’idea della fattoria fu di una vedova Pestalozzi, che si trovò la proprietà, una delle tante possedute nel piano dalla ricca famiglia chiavennasca e che, perso quattro anni prima il marito Bartolomeo Pestalozzi a Selder, sposato nel 1640, scelse di valorizzare e abitare quella zona. Lei si chiamava Caterina Picenoni ed era figlia di Giorgio, podestà di Bondo, allora in Bregaglia grigione, oggi in Svizzera. La proprietà era delimitata a sud da cinque stalle per i cavalli e a ovest dalla parte abitativa, sorvegliata da una torre, che ne faceva una fattoria fortificata: una trentina di anni fa è crollato il lato orientale. Nella parte abitativa si scorgevano decenni fa delle figure dipinte come un soldato con alabarda e un cacciatore, appartenenti a un ciclo più ampio. Curiosa era l’iscrizione settecentesca dipinta, divisa al centro da una mano dall’indice indicante l’entrata del servizio igienico: “En manducanti necessarium”, cioè ecco il luogo necessario per chiunque mangi. La scritta è stata asportata da ignoti qualche decennio fa. Di un edificio a nord, che era l’abitazione dei famigli, si vedevano ancora i ruderi una cinquantina di anni or sono. Infine a est, verso il fiume, sorse una chiesetta. Per costruzioni di questi secoli, successivi al Medioevo, non si va lontano dal vero pensando a manodopera per lo più ticinese, allora presente in gran numero non solo in Valchiavenna, per tutti i lavori collegati all’edilizia: dai mastri murari ai lapicidi e agli ebanisti, dagli stuccatori ai pittori ecc. In questo caso compare come testimone all’atto notarile di benedizione della cappella il capomastro Filippo Cristoffanino fu Giovanni, originario di Cevio in val Maggia. Un nome ricorrente in valle nella seconda metà del Seicento e i primi due decenni del secolo successivo. Con buona probabilità potrebbe aver lavorato con i suoi operai all’erezione della fattoria o almeno della cappella.
La chiesetta di Santa Caterina
Una santa donna la Picenoni, stando a quel che scrive il canonico Gian Giacomo Macolino nel suo “Diario sacro perpetuo”, pubblicato a Milano nel 1707, protestante convertita al cattolicesimo, devota e generosa verso i bisognosi senza darlo a vedere. Nella fattoria non poteva quindi mancare una chiesetta, che nel 1677 era pronta e veniva dedicata a tre sante: Caterina da Siena (dal nome della proprietaria), Orsola e Rosa da Lima. Per la benedizione intervenne il 28 settembre di quell’anno l’arciprete di Chiavenna che, neanche a farlo apposta, era un Pestalozzi, come del resto il suo immediato predecessore e il suo successore. Insieme a lui molti preti e molto popolo presero parte alla solenne cerimonia, con benedizione contestuale della prima pietra, murata nella parete sud. Semplice il disegno architettonico della chiesetta con la facciata rivolta verso est, dove passa la strada: un parallelepipedo per l’aula e un altro simile, ma più basso, per l’altare. All’esterno la muratura è rustica in pietra a vista con una cornice aggettante. Intonacata è solo la facciata, che nel timpano mostra ancora, seppure parzialmente, l’affresco della Trinità. Sopra, al centro, si innalza un campaniletto a vela, privato vent’anni fa della campanella del 1675, che è oggi sul campanile di la sommità passò poco dopo sul nuovo campaniletto della chiesetta di Mondadizza, tra Mese e Gordona. Alla severità dell’esterno si contrapponeva la ricca decorazione interna, pur tutta bianca, con pregevoli stucchi barocchi, quasi tutti caduti in questi ultimi decenni in cui il tetto è rimasto privo delle piote di copertura. Un elaborato cornicione in gesso girava attorno all’aula e sul cielo dei due vani un motivo circolare, che in parte si può ancora indovinare, era in origine accompagnato da putti alati, vasi di fiori, serti floreali, così come nella cornice della pala, trafugata alla fine degli anni Sessanta del Novecento: un olio su tela raffigurante la Madonna con il bambino e, sotto, le tre sante patrone inginocchiate e a destra san Giovanni Battista in piedi. Non più abitata, la fattoria andò decadendo. In particolare la chiesetta veniva periodicamente allagata
dall’acqua del canale che lambiva la facciata, finché, nella primavera del 1934, si spazzò il fosso, si gettò un ponticello in cemento davanti all’ingresso e si alzò di mezzo metro il pavimento. Ma l’acqua continuò a invadere la chiesetta e il colpo di grazia arrivò nell’estate del 1951 con l’allagamento generale e l’abbandono definitivo. Per fortuna - ed è il motivo per cui si è scelto di tornare a parlarne qui - ultimamente alla chiesetta è stata rimessa una copertura per fermare il degrado, proteggendo le aperture con inferriate e ripulendo l’area circostante. Un’iniziativa lodevole della Comunità Montana della Valchiavenna, sostenuta dalla Fondazione Cariplo.
Qui vissero i nonni materni di Maurizio Quadrio. Erano divisi in otto rami i Pestalozzi di Chiavenna. Quello del marito della Picenoni, che volle la fattoria, da cui, tra l’altro, uscirono nel Settecento i fratelli Daniele e Giovanni Battista Maria, arcipreti a Samòlaco l’uno dopo l’altro. Toccò al secondo, divenuto arciprete a Gordona, autorizzare il battesimo a San Pietro di Samòlaco, anziché a Gordona (alla cui parrocchia appartiene tuttora la chiesetta) per i figli di due fratelli di Bette, abitanti come famigli nella “mia casa” alla Cesura, com’egli scrive. Altri figli furono da lui stesso battezzati direttamente nella chiesetta della fattoria. Un fratello dei due preti, Bartolomeo, abitava alla Cesura con la moglie Elena Anna Joss, figlia del landamano grigione Udalrico di Zizers. Sono i genitori di Maria Angelica Pestalozzi, nata a Chiavenna nel 1771, due anni dopo che la famiglia aveva lasciato la fattoria, dov’erano nati altri quattro figli. Forse fin da allora la Cesura fu abbandonata dai Pestalozzi e abitata solo dai famigli. Angelica sposerà a Chiavenna il medico Carlo Quadrio di Chiuro e da loro nascerà nell’anno 1800 il patriota Maurizio Quadrio, che diverrà segretario di Mazzini ed è sepolto a Roma nel Pincetto nuovo del Verano.